L’intervento di Attilio Dadda, Presidente di Legacoop Lombardia e membro del board dell’ICA International Cooperative Alliance, per L’economia civile, l’inserto di Avvenire su economia civile, evoluzione del Terzo settore, finanza ESG e tecnologia a impatto sociale.

Qualche anno fa in Colombia la Corte Suprema di Giustizia ha emesso una sentenza storica: i beni naturali sono titolari di diritti così come le persone, per sottolineare lo stretto legame tra salvaguardia ambientale e condizioni di salute e benessere della popolazione. La Conferenza internazionale sulla biodiversità, prevista nell’ambito della COP16 dell’Onu, si terrà in Colombia, terzo paese al mondo per la varietà di forme di vita e primo per la diversità di farfalle. E proprio la Colombia ha appena ospitato a Cali il Board mondiale dell’ICA (Alleanza internazionale delle cooperative). Il Paese conta oltre 6 milioni di cooperatori e cooperatrici: 1 colombiano su 3 è membro di una cooperativa. Da lì, appaiono ancora più chiare le grandi sfide del cambiamento climatico e della ricostruzione ambientale che si pongono davanti al movimento cooperativo mondiale, l’unico capace per sua natura di leggere i bisogni del territorio per poi agire sulle dinamiche globali, siano esse ambientali, demografiche, sociali ed economiche. Non una strada semplice ma un costante lavoro, diffuso e partecipato di miglioramento collettivo. E lo fa, non a caso, senza accumulare profitti nelle mani di pochi, ma reinvestendo gli utili a favore di molti, dei soci e nelle comunità locali.
È però necessario essere concordi anche sul ripristino della natura, come indicato nella strategia dell’UE dalla Nature Restoration Law, tesa a riportare il benessere della natura e la resistenza ai cambiamenti climatici al centro dell’attenzione. Tale tema non è una delega alla Pubblica Amministrazione, ma un pilastro strategico importante del nostro tessuto economico. Tutto un altro registro rispetto alla perpetua riduzione dei costi che induce al lavoro povero e ai diritti differenziati.
Sono certo che anche le imprese capitalistiche su queste grandi sfide dovranno mettere da parte la logica del capitale e arrendersi alla forza lenta della cooperazione, al suo modello di sostenibilità integrale.
Ritengo che il movimento cooperativo italiano, europeo e mondiale abbia la responsabilità storica di indurre e innescare una discussione profonda sullo sviluppo, sul suo punto di non ritorno e sull’impatto non sopportabile per chi abiterà questo pianeta nei prossimi decenni e per chi abita oggi nei paesi emergenti. Per i paesi sviluppati è stato facile crescere nell’illusione dell’infinita avanzata: tutto era sacrificabile pur di mettere un segno positivo al PIL. Le regole sono cambiate e le stanno interpretando meglio e in forma più lungimirante alcuni Paesi che non sono nelle prime posizioni della classifica economica mondiale, oltre che la Commissione Europea a fine mandato. È necessario farci contaminare dall’incredibile biodiversità di visione degli altri Paesi, sentirsi prima di tutto una specie tra le altre, aumentare la varietà di pensieri e scenari; è necessario farlo anche per non essere travolti dal peso delle evidenti responsabilità dell’attuale generazione che governa i processi e i paesi. Serve guardarci allo specchio. È nostro dovere non fare parte del problema ma della soluzione.